
15 Lug La grande “corsa ai record”, dagli Appalchi di Jurek all’Alpe Adria Trail di Evangelisti
Leggiamo ormai quasi ogni giorno che qualcuno ha stabilito un nuovo record. Da Scott Jurek sugli Appalachi pochi giorni fa, alla ferita ancora aperta che Galliume Peretti ha inferto al pluiriblasonato Kilian Jornet sul Gr20. In questi giorni Michele Evangelisti sta cercando di stabilire quello sull’Alpe Adria Trail.
I record di velocità e record di distanza sono i più gettonati da chi corre. Sembra quasi di tornare indietro di cent’anni o più, e leggere delle imprese dei nostri alpinisti alle prese con l’apertura di nuove vie sui colossi delle Alpi. Come non pensare a Emilio Comici, Walter Bonatti, Riccardo Cassin o l’ancora attivissimo Rehinold Messner, che ai più non è noto per le sue imprese, ma per il suo amore smodato per l’acqua Levissima.
Dagli alpinisti che romanticamente competevano per le cime alla “corsa ai record” dei nostri top runner contemporanei.
Se il senso dell’aprire una nuova via o violare roccia vergine è evidente, non è altrettanto chiaro il senso che possa assumere il percorrere un determinato percorso e stabilire il record su quel tracciato, anche perché le variabili non misurabili oggettivamente sono troppe.
Non stop o a tappe. Con appoggio esterno o in totale autonomia. Lungo il tracciato originale o con qualche variante. Chi misura il tempo? Chi controlla che non ci siano scorrettezze?
Uno solo di questi elementi può stravolgere completamente il senso dell’impresa. Cose che certo non possiamo dire per chi scala una vetta. Basti pensare alle ascensioni sul Re Cervino, che dal 1800 venivano seguite quasi in tempo reale con il binocolo, e in cui la possibilità di alterare le variabili era assai ridotta.
Queste riflessioni nascono da un pensiero di circa 12 ore, mentre accompagnavo con altri amici Michele Evengelisti nella prima tappa del suo tentativo di stabilire il record sull’ Alpe Adria Trail, un percorso di circa 700 km da Trieste al Großglockner in Austria , passando per alcuni dei punti più belli del Nord Est Italiano della Slovenia e dell’Austria.
Michele si pone come obiettivo quello di percorrere le 43 tappe (o giorni) in soli 11 giorni di corsa, con tappe di circa 70 km. Una bella sfida, anche per un corridore veloce e resistente come lui. Sfida che è tuttora in corso e potete seguire in tempo reale dalla sua pagina facebook
Evangelisti non è nuovo a questo genere di “scampagnate”, l’anno scorso ha attraversato l’Irlanda in autonomia totale, zaino in spalla e GPS, cosa che me lo rende decisamente più simpatico che a vederlo in pantaloncini e marsupio ad affrontare i 700 km dell’ Alpe Adria Trail. Ben inteso: i km sono quelli e l’impegno atletico e mentale non è minimamente in discussione, lo zaino pesante e l’assenza di supporto esterno, però rendono queste iniziative più vicine allo spirito di chi poi effettivamente percorre il percorso, e meno prossime alla ricerca del miglior tempo ottenibile.
Ed ecco che giungiamo al nocciolo della questione. Il senso e l’utilità di queste iniziative, che volutamente non chiamo imprese.
Iniziamo a dire quello che questi record non sono assolutamente, a partire da quelli di Jornet e Peretti per arrivare a quello in cui si sta cimentando Michele.
Questi record non sono strumenti per valutare quanto un atleta sia forte. Sono le gare e le competizioni dove le caratteristiche del terreno sono eguali per tutti, a farlo. Lo sanno bene gli alpinisti, che proprio grazie o per colpa di Madre Natura hanno visto tanti tentativi fallire o succedere.
La bravura dell’atleta che tenta uno di questi record deve esserci alla base, non deve essere cercata attraverso l’”impresa”. Il record è quindi frutto di bravura, non legittimazione e origine di talento. “Il mio essere bravo da origine ad un record”, non “ho stabilito un record e quindi sono bravo”.
Questi record non sono elementi su cui valutare l’esperienza dell’uomo medio lungo quel percorso, tanto meno la fattibilità dello stesso. Se Jurek ha impegato 46 giorni per percorrere L’Apalachian Trail, questo tempo non va assolutamente preso come riferimento rispetto al terreno in oggetto. Non rappresenta assolutamente le condizioni in cui il camminatore medio si troverà.
Sfido chiunque a correre di notte, senza aver fatto una ricognizione e conoscere benissimo il terreno come Peretti, lungo le Cirque de la Solitude in Corsica, e non ammazzarsi.
Chi corre per un record ha supporto esterno o ha studiato attentamente il percorso: non si tratta di “barare”, si tratta di creare delle condizioni specifiche per raggiungere il fine della velocità. Fine diverso da chi percorre un trail con l’idea di fare un “viaggio”.
Questi record non sono, tranne rari casi, record attendibili. Spesso non esiste, tranne qualche eccezione, un monitoraggio continuo, ufficialmente riconosciuto e certificato di chi compie queste attraversate. Quindi restano imprese basate sulla buona fede e lo spirito sportivo di chi le compie, e come tali vanno trattate.
Rimuginando su questi aspetti e chiacchernado con Evangelisti, mi sono interrogato su cosa restasse di questi record e a cosa servissero davvero.
Alla fine lo ho capito.
L’unico vero senso di di queste iniziative è una sfida con se stessi di chi le compie, e una occasione di riflessione sulle proprie capacità e i propri limiti. Correre il Gr20 in canottiera come Jornet o una 700 km in marsupio come Michele, non rappresenta minimamente la realtà effettiva del percorso, ma è la rappresentazione interiore dell’atleta rispetto all’ambiente che lo circonda. Esattamente come un orologio di Dalì non rappresenta le caratteristiche tecniche di uno strumento di misurazione del tempo, ma una visione interiore e soggettiva dello stesso.
Il renderle pubbliche o appoggiate dagli enti sportivi o di promozione può trasformale in un pretesto per valorizzare le risorse di quel territorio, messaggio che però va sempre messo in relazione all’atleta e mai preso come unità di misura o traccia di viaggio.
In questo senso Michele Evangelisti mi è piaciuto, spontaneo e modesto nell’affrontare il terreno e guidato da grande entusiasmo.
La sua non è un’”impresa” pianificata chirurgicamente e con ricognizioni esplorative, ma basata solo sulle informazioni che si possono reperire sul sito dell’ Alpe Adria Trail. Esattamente come quella del “camminatore medio”.
Il supporto dato a Michele è minimo e dallo spirito casalingo, costituito da una macchina ed una motoretta che gli forniscono acqua e cibo alle maggiori intersezioni stradali. La navigazione resta quindi affidata principalmente a lui, al suo GPS e ai nuovissimi cartelli che marcano il percorso.
A questa base si aggiunge l’apporto fondamentale di tanti amici come Riccardo Guarino e Fulvio Strain, che accompagnandolo a proprie spese lungo il percorso, lo hanno aiutato a non sbagliare strada e lo hanno sostenuto con la loro compagnia, una “benedizione” che i top runner come Cudin e Massarenti hanno dato anche prestando la loro immagine all’iniziativa. Ed è questa la bellissima atmosfera che avvolge questa “corsa ai record” di Michele, quella dell’iniziativa tra amici e con lo spirito del low cost, a metà tra l’organizzato e l’improvvisato, che molto la allontanano alle operazioni mediatiche dei big della corsa, rendendo il tutto più spontaneo e verace.
L’unico neo è che tutto questo sia rimasto sconosciuto alla stampa, in particolare a quella locale, facendo si che a Trieste non si sapesse nulla di questa iniziativa, motivo per cui il tifo e il supporto della comunità locale siano stati quasi del tutto assenti.
Quello di Michele è un buon compromesso tra il desiderio di essere veloci del top runner per sfidare se stessi ed i propri limiti, e l’esperienza di viaggio di chi poi affronterà un percorso durante le vacanze. Che Evangelisti riesca o meno nella sua corsa contro il tempo ed i chilometri lo sapremo tra 9 giorni, nel frattempo facendo il tifo, ci gustiamo la bellezza dei paesaggi che lo accompagnano.
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